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Non chiamatele buone pratiche

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Non risponderò alla domanda su cosa voglia dire per il volontariato e per tutto il non profit essere innovativo. Non sarei in grado ed esistono già fiumi di parole spese a questo proposito. Cercherò di rispondere ad un’altra questione: come trovare la carica innovativa?

Prima di tutto assumendo il rischio: il dono è la materia prima del volontariato. Il rischio, ce lo ricorda Paolo Venturi, è connaturato al dono. Quando dai non calcoli il ritorno. Questo differenzia profondamente il rischio dalla scommessa. È infatti la scommessa esce dalla persona, è un atto che va fuori e non richiede alcuna qualità. Il rischio invece mette in gioco integralmente testa, cuore e corpo. Innovare, come donare, è rischiare.

L’abbondanza di risorse minimizza il rischio in economia. Nel sociale sono la fiducia, il coraggio e le capacità a minimizzare il rischio. L’esempio classico è il microcredito: più c’è fiducia più il credito dato ritorna. Pensando agli ultimi scandali bancari si capisce bene come il tema della fiducia sia direttamente connesso al mercato e all’economia. E al welfare. Ma che ve lo dico a fare.

Il terzo settore è già innovativo perché inclusivo, include e valorizza, sopratutto nel sistema cooperativo, le risorse che il sistema tende a lasciare fuori: donne, migranti, giovani.

Oggi i costi della conservazione (che si basa sull’inerzia) sono più alti di quelli dell’innovazione. E non si innova senza conoscere, senza esercitare la virtù più importante: la curiosità.

Se l’innovazione è un processo e non un prodotto, cosa è che fa scattare un processo di innovazione? È prima di tutto il cambiamento dei paradigmi di azione, produzione e quindi consumo di beni.

Il paradigma classico di produzione dei beni considera il lavoro come un mero costo: quello che tu fai lo può fare chiunque altro. Quindi tanto vale risparmiare il più possibile. Alcune forme di economia invece si fondano sull’idea del lavoro come valore aggiunto che qualifica la produzione stessa perché il prodotto è il risultato di quel valore e di quella persona specifica non di un’altra. E il valore economico si rigenera con la rigenerazione dei processi.

Nel caso dell’innovazione sociale di beni non solo materiali, ma di tutto quello che ha a che fare con la sfera dei beni comuni, dei beni culturali, dei beni relazionali, il meccanismo è chiarissimo.

Quindi innovare nel volontariato è prima di tutto un’occasione per fornire nuovi servizi e rispondere a nuovi bisogni: ma serve pazienza, visione, cultura, metodo. Occorre far vedere l’orizzonte che si vuole raggiungere e diffondere la nostalgia dell’obiettivo che vogliamo concretizzare. Perché è la nostalgia del futuro che accende il desiderio. Vale così per ogni impresa d’amore.

L’innovazione del volontariato si gioca su questo asse: sulla sua capacità di far crescere le comunità in quanto formate da individui uniti da relazioni sociali positive, inclusive, motivanti e coinvolgenti.

Una grande innovazione è costruire processi collaborativi dentro le organizzazioni, magari coinvolgendo gli utenti dei servizi sui prodotti e i beni relazionali. e non solo, che si offrono. Occorre rinnovare le piattaforme su cui vengono costruiti tali processi.

Esperienze e pratiche ne esistono a tonnellate. Vita le racconta ogni mese sul suo giornale.

Si è innovativi se non si basta a se stessi, se si è capaci di vedere il proprio alleato nel posto più impensabile.
Per questo tutti gli innovatori sono anche dei volontari, ma non tutti i volontari sono innovatori. Perché quello che cambia non è ciò che fai, ma come lo fai. È il paradigma: donando ricrei le condizioni che sono alla base della necessità del tuo dono oppure no? Donandoti permetti agli altri di donarsi? E la domanda delle domande, quella che Geppi Cucciari ha rivolto ai volontari lo scorso 5 dicembre al Quirinale di fronte al Presidente Sergio Mattarella: ti rende felice quello che fai?

In questo senso il servizio è un mezzo e non un fine. Un mezzo, è inteso, per costruire comunità, non per far valere altri interessi.
Perciò sono fondamentali il contesto e il clima organizzativo che si vivono nelle associazioni. Sergio Casella, manager e scrittore, nel suo libro “La morale aziendale” definisce in due parole, con una citazione che a sua volta riporta, cosa è la leadership: “leadership è ciò che accade quando non ci sei”.

Quello che Casella teorizza per le aziende, sulla base della sua esperienza di manager, è tremendamente e forse più vero per le organizzazioni sociali e il non profit.

“L’agire morale -scrive Casella- è “lo spendersi” verso l’altro, mettere l’altro al centro della propria attenzione e cura, il dare se stessi, le proprie competenze, le proprie conoscenze, i propri successi agli altri senza chiedere niente in cambio, in totale gratuità, farli partecipi del bene che io ho raggiunto e condividerlo. Ognuno di noi ha ricevuto dei doni: l’intelligenza, la capacità di apprendere, la capacità di analisi e sintesi, la comunicazione, la capacità di fare previsioni e avere una visione di chi vuole essere come persona, o come azienda, la capacità di individuare la strada da seguire, la capacità di ascolto… Questi doni che ci sono stati dati dobbiamo a nostra volta metterli a disposizione degli altri e non tenerli gelosamente nascosti per farne strumenti di potere o di scalata al successo. Il vero leader morale è colui che condivide ciò che ha, senza paura di perdere qualcosa, con la sicurezza che riceverà indietro molto più di quello che ha dato”.

Dove sono i blocchi allora? Esiste un problema generazionale? Il Censis, ce lo ricordano Venturi e Zandonai nel loro contributo al dossier sulla sharing economy diffuso con Il Sole 24 Ore, ci rammenta che la generazione dei millennials (18-34 anni) ha delle caratteristiche molto diverse da quelle precedenti: il 94% utilizza internet, l’87% usa almeno un social network, l’85% usa lo smartphone, 189.000 giovani sono promotori di almeno un progetto di crowfunding.

Dalla sharing economy, peraltro, che ha pur mille zone d’ombra, arriva una lezione fondamentale: la risposta collaborativa ai problemi sociali. Il pezzetto che ognuno deve mettere perché nessuno da solo ce la può fare. E ognuno lo mette per permettersi qualcosa di più di ciò che potrebbe. Allearsi è prima di tutto accettare i propri limiti: capita con l’età che avanza, dovrebbe capitare anche alle nostre società che invecchiano.

Ciò che serve è superare i blocchi e quello legato alla leadership e all’ossessione del controllo è uno dei più forti. E non è tanto né solo generazionale. È questione di cervelli giovani, non di età.

Allora tu, caro volontario, sei innovativo se sei soddisfatto di quello fai, se ne vedi gli effetti sulle situazioni che sostieni, se crei le condizioni perché l’altro dia quanto tu dai, se liberi spazi non se li occupi, se ogni giorno ti interroghi e cerchi insieme agli altri risposte rispetto alla tua azione e a come renderla più efficace e aggregante, se capisci i tuoi limiti e quelli degli altri e da essi costruisci qualcosa che li supera. Se, in conclusione, sblocchi e liberi le energie tue, del tuo gruppo e delle persone che aiuti.

I beni comuni e i beni pubblici sono un terreno di innovazione importante del volontariato. Ma la sfida vera è un’altra: passa dall’attivazione delle risorse private, non solo quindi della sfera pubblica, in un’ottica inclusiva e coesiva. Perché le ricchezze ferme o sprecate non sono solo quelle pubbliche, sono anche quelle private che se non utilizzate o non condivise si deteriorano e ci impoveriscono sempre di più.

Un tema enorme che andrebbe sviluppato perché le sfide demografiche e sociali passano proprio da qua. I progetti più virtuosi per il dopo di noi, nel campo della disabilità, ne sono un esempio molto efficace. Un altro esempio interessante è il progetto Abitare Solidale di Auser per la condivisione delle abitazioni degli anziani con le famiglie che hanno necessità abitative.

Ma il patto fra la sfera pubblica e la sfera privata andrebbe esploso in tutti i campi. È le realtà del volontariato e del terzo settore invece di guardare sempre in alto, al Palazzo, dovrebbero essere più attente alle dinamiche sociali. Guardare in basso, che era l’azione più di moda nell’epoca d’oro del volontariato.

Perché l’innovazione è un processo, è figlia di un nuovo paradigma e di una visione non convenzionale. Non è un obbligo, è una possibilità. È la sua necessità svanisce quando è ben percorsa. È sfidante. Ciò che è innovativo oggi non lo sarà domani, domani ci saranno altre trasformazioni sociali che renderanno le vecchie innovazioni tradizioni da superare. Per questo l’innovazione è un approccio risolutivo alle cose, ai problemi sociali. È mantenere giovane la testa e non aver paura di fallire. Perché il rischio è la condizione per crescere. Anche l’errore è la grammatica della crescita.

Quindi coraggio che la strada da fare è tanta.


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